Tuesday, January 30, 2007

Oriana


Il primo romanzo che ho letto è stato "Niente e così sia", in seconda media, trovato in casa di mia nonna durante un'influenza invernale. Ce l'ho ancora, edizione Feltrinelli degli anni '80 tipo. C'è Oriana in Vietnam, con le trecce, dentro una tenda da campo dell'esercito americano, in tenuta da soldato. Lei era una giornalista soldato. I suoi bellissimi occhi mobili e lo sguardo intenso, che vedeva oltre. Io ero solo una bambina. Però in quel giorno avevo deciso che anche io avrei fatto la giornalista, inviata di guerra, come lei. Avrei scritto pezzi infuocati dentro una tenda militare, con il taccuino sulle ginocchia.
Poi è andata diversamente. Adesso sto cercando di diventare psicanalista. Però mi piace fermarmi a pensare a lei. Abitava a New York, e quando ci sono stata non ho nemmeno visto la sua casa. Però mi sono detta "Siamo qui insieme, lei è in qualche casa, in qualche strada di Manatthan." E' Toscana d'origine, come me, anche se io sono mezzo sangue. E anche io vorrei vivere a New York.
Da bambina mi illudevo che in qualche modo lei sapesse che esistevo e che volevo diventare come lei. Che lei era il mio mito, anche se non sono una che fanatizza sui propri miti. Li penso e li adoro in silenzio. In ogni caso Oriana era Oriana. E anche se è stata demonizzata, contestata ed esaltata ha lasciato un buco vuoto quando è andata via. Un buco d'idee e di presenza mentale. Forse era una tiranna, una intransigente, tutto quello che volete. Ma il suo modo di scrivere il proprio pensiero aveva un misto di autenticità e pragmatismo, di chiarezza e forza, di coraggio e poesia che ogni lettore le riconosce come marchio di fabbrica. Oriana era una fiorentina a New York e questo dice tutto. Nel suo ingegno la genialità dei toscani ma anche la loro ruvidezza. Vorrei leggere di nuovo Niente e Così sia con gli occhi incantati di una preadolescente. Allora sentirei qui Oriana, di nuovo.

Tuesday, January 16, 2007

Children of Leningradsky


Leningradsky è una stazione della metropolitana di Mosca.
Ci vivono dei bambini.
Street children, homeless children, bambini di strada.
E' la stessa cosa.
Un'abominio del mondo, qui come altrove.

Una regista polacca, Hanna Pollak, ne ha fatto i protagonisti di un mediometraggio.
Questa recensione non si concentrerà sul film-documentario. Quello è bene che uno lo veda con i suoi occhi. Io mi concentrerò sugli occhi di chi lo ha visto.
Le facce degli spettatori, quando la pellicola è terminata, erano smarrite. Ciò che leggevi in quei visi, in quegli sguardi, era il senso del film, la traccia che le immagini hanno impresso nell'animo di ognuno.
Non c'erano parole. Penso che non possano esistere, per un orrore senza fine, ed obiettivamente siano anche inutili. Superflue.

Perchè l'orrore o non è metabolizzabile, o ha bisogno di una lunga, lunghissima, quasi dilatata elaborazione, che non passa attraverso le parole. Eppure l'orrore entra in quelle piccole vite alla velocità della luce, dentro ogni respiro, ogni battito del cuore. L'orrore a loro non chiede il permesso, non chiede la possibilità di entrare.


Vorrei commentare questo film attraverso il contrasto che la pellicola ha creato con noi, noi che viviamo al di qua dello schermo, e abbiamo la possibilità di osservare seduti su una poltrona, al caldo, al buio e nel silenzio. Noi che abbiamo scelto di guardarlo e forse ci siamo preparati alcuni giorni prima perchè sapevamo che questo appuntamento ci attendeva.
Torniamo agli sguardi: c'era chi sorrideva, come se si fosse appena svegliato da un prolungato torpore. Chi si guardava intorno, come se non sapesse più dove si trovava. Chi non si muoveva. e continuava a fissare lo scorrimento dei titoli di coda. Nessuno parlava. Nessuno sapeva che cosa doveva fare, anche se l'unica cosa plausibile era alzarsi e uscire. Questo è stato il film. Un uragano silenzioso. Un terremoto immobile. E' proprio ora, alla fine, che comincia tutto.
Per Noi.
Nel ventre dell'opulenta Europa, sotto i pavimenti dell'Unione Europea, un esercito di pallidi bambini vive aggrappato ai tubi del riscaldamento. Nessuno sa che esistono. Un popolo di piccoli fantasmi.
Ora nessuno può dire, non lo sapevo...



Tuesday, January 09, 2007

To be an outsiders

Oggi mi sento fuori da tutto.
Sensazione strana e non inconsueta.
Incuriosita da questo mio nuovo essere.
Esausta.
Ho affermato me stessa e per una volta ho urlato la mia voce fuori dal coro.
Sì sono uscita dal gregge delle pecorelle ammaestrate per obbedire a quello che sentivo nel profondo.

Non avevo scritto nessun post per l'anno nuovo.
Ma ho trovato come voglio inaugurarlo: voglio sentirmi più libera di essere me stessa senza vergognarmi di quello che sono.
Voglio sentirmi più autentica, senza che questo mi faccia paura.
Bisogna sottostare a molti compromessi per vivere in socialità.
Ma a tutto c'è un limite.
Mi pentirò, chi può dirlo?
Certo, non sarà una passeggiata.
Il dire "Io non ci sto" ha sempre i suoi effetti. Per una volta l'ho fatto ed è, come spiegare, bello, inebriante, complesso.

Quello che mi spiace è che una certa persona non crede mai in me, e mi vede sotto un'unica, fumosa lente. L'immagine di me, ai suoi occhi, non cambia mai.
E il punto è: questo non è importante.
Ok
Ma quanto io sono per me stessa e quanto per gli altri, e quanto è possibile trovare un giusto mezzo fra questi due estremi?