Wednesday, November 29, 2006

Polvere di stelle


Polvere di stelle.
Residui di un'esplosione. Mattinata col ricordo di un pianto sfogato e una finta felicità. Hai guardato le mie lacrime scendere, senza dire nulla, e questo mi basta.
Ricoprire il dolore con carta da regalo. Il pensiero che forse non saremo più quello che siamo ora e il futuro, da qui ad aprile, sarà un rutilante carosello prima di andare a dormire.
Sciarpe calde e maglioni. Siamo persone semplici, e pure e forse i caroselli non ci piacciono più di tanto. E' stata una scia indefinibile di eventi a farci ritrovare in quella stanza, a vivere insieme metà giornata, notte esclusa. Ma quello non è il porto, solo una stazione di passaggio. Dove veder bruciare incensi di patchouli insieme al proprio personale dolore. Estremamente dignitoso, ma denso.
E a parlare di morfina mi viene proprio voglia di sperimentarne gli effetti, o da malata o da tossica, o da arrivata alla fine del mondo. Vorrei perdermi in visioni che mi portano lontano o sentirmi leggera come se i miei polmoni funzionassero ad elio. O forse questo brillante squallore natalizio di luci e carte dorate altro non è che una versione stagionale di tali visioni e io sono già partita e non lo so. Se tutto finirà non voglio essere qui a guardare la fine. Lo so, è un mio limite, non so tollerare fini e affini. Poi a distanza di anni le smonto come stupide torri di lego, le rendo trasparenti e ci guardo attraverso come lenti colorate. A distanza di anni il dolore del presente si trasforma in un'impronta indurita e indefinita che non sapresti più far risalire ad un proprietario. Il dolore del presente è un mostro da gestire, per il quale mi trovo sempre sprovvista di attrezzature: e mi chiedo, che prezzo potrà avere una felicità costruita?E' vero che la felicità è sempre costruita e ha sempre un prezzo?Eppure, io so fare solo questo, queste piccole stupide costruzioni che mi fanno sentire viva e tangenzialmente ancorata a qualche relazione. Una piccola e stupida vita, un piccola e stupida persona. E basta.

Monday, November 27, 2006

Nebbia e pianto


Scazzo totale. Nebbia. Pianto. Natale alle porte. Ultimo giorno dell'anno. Poesia. Pazzia. Cenere. Navigli.
Segreti. Ombre. Unghie che sgranocchio incessantemente.

In questo ultimo periodo dici cose centrali.

Già...ma io dove sono? Dove sono mi chiedo, mentre la mia vita vive?

L'ultima frontiera dove sta il segreto della mia vita: perchè, mi chiedo, questo terrore di essere alle ultime pagine, come se tutto fosse in procinto di finire, il mistero di disvelarsi, e la mia vita uno specchio senza segreto, che precipita in sè stesso senza fine?

Questi sogni che non riesco a ricordare, e le luci delle strade dei negozi, che non so recuperare, non so restituire alla magia delle feste se non di quel Natale centrale in cui ho iniziato a morire?

27 NoVembre

Mi dispiace che questo blog sia diventato un oscuro viaggio nelle mie elucubrazioni.
Non volevo, o meglio, ero sicura che avrei saputo gestirlo "sportivamente". Vi trascrivo un brano di un romanzo molto bello:

"Ancora prima di girarlo, sapevo già che cos'era: il ritratto di Rosa che avevo visto in casa di Lena, riposto insieme ad altri sul ripiano più alto del guardaroba. In bianco e nero, coglieva Rosa di tre quarti, dalla vita in su, con il seno che si intravedeva nella scollatura della vestaglia; il viso non truccato, i capelli neri umidi e scompigliati come se fosse appena uscita dalla doccia; la tazza in mano, anelli a tutte le dita, pollice compreso. Non in posa, come se non si fosse accorta di essere fotografata: guarda qualcosa o qualcuno fuori campo, o forse non guarda niente. Sorride. E' in comunita e sorride rilassata, spontanea, incurante di quello che pensano gli altri di lei, indifferente. Sembra non aver bisogno di dire: "Questa sono io"; sembra contenta di essere semplicemente sè stessa, quasi canticchiasse fra sè "Sono io, sono io". Nonostante gli abusi, lo sfruttamento subito a livello fisico, emotivo e sessuale...Rosa possedeva, possiede un'inviolabilità di fondo. "Non potete toccarmi". Mi sono reso conto che non ero abbastanza grande per contenerla, abbastanza forte per sollevarla dove lei non riusciva ad arrivare da sola. Sono stato l'ultimo di una lunga serie di persone che l'hanno allontanata dalla sua unica vera fonte di libertà: sè stessa."

Martin Bedford "La ragazza Houdini"

Le figure femminili nella letteratura sono affascinanti. E anche nella vita. A volte penso che le donne hanno una potenza straordinaria, che gli uomini non hanno e non avranno mai.
Le donne della mia vita sono tante, e ognuna è limpida e rilevante come una goccia d'acqua su un filo d'erba.

Wednesday, November 22, 2006

Inquietudine

Oggi sento profonda inquietudine. Vivo profonda inquietudine.
Vorrei poterla toccare, per sentirla più viva.
Perchè è fisica, materiale, presente, ingombrante.
Inquietudine è un gioco, che più tanto sottile non è, una persona fra noi, un modo che hai di guardarmi quando io volutamente non ti guardo, e lascio scivolare nella coda dell'occhio, nel punto più sottile e tagliente di percezione delle cose, il tuo sguardo.
Inquietudine è l'emozione più difficile da vivere, da pensare.
Perchè quando lascio cadere gli sguardi lì vuol dire che sto male, in quel modo particolare in cui sto male io.
Come faccio a capire se un giorno smetterò.
Se un giorno, finalmente, non lascerò più scivolare gli sguardì lì, come se fossero lacrime sbagliate, e avrò finalmente la forza di tenerli al centro.
Quel giorno forse vedrò la mia superficie forte, compatta e non in sfaldamento, come un golf infeltrito.

Tuesday, November 21, 2006

Amsterdam swing




Che vi devo dire? Il post che ho scritto su Amsterdam non mi è piaciuto. Vorrei forse non averlo scritto. Ma non si può tornare indietro nè si può cancellare ciò che è stato. Quel post è quello che è e quello che è stato. Ma non necessariamente ciò che sarà.
Comunque...
Vorrei pensare con convinzione che quella non sarà per sempre la mia Amsterdam, non sarà per sempre un triste blues. Ma potrà diventare un brioso swing. Amsterdam sarà qualcosa di nuovo quando avrò l'occasione di andarci. Non sarà ciò che non è stato.
Sarà ciò che deve ancora essere, una possibilità racchiusa nel futuro.
Qualcuno ha parlato di "nostalgia del futuro" come sentimento di nostalgia verso quello slancio che normalmente si ha in adolescenza e che piano piano si attenua con l'avvicinarsi all'età adulta. E' dura pensare di averlo incanalato male, a suo tempo, talmente male da aver provocato profonde incrinature nella propria esistenza. Talmente male da avere ricordi duri come questo di Amsterdam. Nostalgia del futuro è pensare che non potrà mai cambiare. Ma non ho ancora capito se il cambiamento esiste.
A volte penso che vorrei essere un'altra persona eppure se non fossi io, ciò che sono stata, non mi riconoscerei. Ciò che sono oggi è l'anello di congiunzione tra un passato non troppo lontano e quello che sarà. Ma il futuro arriverà o sarà sempre comunque un eterno presente?
Mi piace pensare alla nostalgia del futuro come a un dolce swing o ad un roco blues che risuona tra le vecchie vie corrotte di New Orleans...ah New Orleans, una città dove andavo con la mente tanto tempo fa. C'è un post che aspetta per questo. Domani, forse...
Ieri è stata una giornata di sonno, e di ritorno ad un nucleo caldo e profondo.
Non mi ci immergo più come una volta, per trovare riposo e conforto. Ora, è come un appartamento in sfratto, mi aspetto d'essere buttata fuori da un momento all'altro. Precarietà. Ho sempre un piede dentro e un piede fuori, da tutte le cose. Sono sempre un po' fuori dalla porta, non riesco mai ad entrare e pensare di poter abitare qualcosa profondamente. Fermarmi, sedermi, rilassarmi. Nostalgia del futuro, nostalgia di un posto caldo che possa essere casa tua.

Tuesday, November 14, 2006

BLACK AND WHITE

L'ho buttato fuori dopo giorni e giorni che stava lì e non andava nè su nè giù (citazione da "Ovosodo" di Virzì). L'ho espulso e adesso mi sento un po' meglio. Se non altro mi sembra di poter respirare. Ieri quando mi hai chiesto "Cos'è che non riesci a dire?" o una frase simile, purtroppo non la ricordo perfettamente, ho sentito che eravamo al punto. (Sarebbe bello poter ricordare la frase esatta...)Mi sono affidata a quello che stavo provando, perchè non era semplice in quel momento vedersi dall'esterno e capire cosa stava succedendo. So che è come se avessero tolto un tappo. Il bisogno di identificazione non può essere così forte da annullare la propria identità, da annullare le diversità, da espandere l'esigenza di essere una persona sola fino a sentirsi soffocati dentro l'esistenza di un altro. E quando ti ho detto quella frase non era per offenderti, ma tu l'hai capito credo. E' che non ce la facevo davvero a stare nella comunione perfetta. Pensando che finiva tutto lì, che oltre non c'era nulla. Ma forse davvero tu hai capito, e queste cose le sto dicendo più a me stessa, stupita di aver tirato fuori un rospo così grosso in così breve tempo e senza troppi danni. Vorrei fossimo un colore unico, vorrei essere del tuo stesso colore, ma anche se fossimo tu bianco e io nero non cambierebbe il sentimento che ci lega. Anche se fossimo io un gatto e tu un topo potremmo abbracciarci così. E' possibile stare insieme nella diversità. Ma è possibile stare insieme nella distanza? Ma come tu hai detto, c'è un altro aspetto del legame che è molto più primitivo e più viscerale ed è quello che mi mette le catene, è quello a cui non so rinunciare. Non so se si era già visto sugli schermi uno strappo rabbioso come questo. Forse sì, ma non ero mai riuscita a vederlo così bene, ad esprimerlo così bene.


Sunday, November 12, 2006

Amsterdam blues



Quando me lo sono venute a dire era pomeriggio, credo. Lì dentro il tempo non esisteva più. Le ho incontrate nel corridoio. Un pomeriggio d'inverno con i neon accesi. O forse un pomeriggio con il lungo tramonto rosa che lasciava una scia di luce stanca. "Andiamo in gita ad Amsterdam, vieni?" Travolta. Non sapevo cosa rispondere. Perchè da un po' ero fuori dalla classe, fuori dal tempo, fuori da me stessa. Infagottata in grossi maglioni. Persa La decisione poteva essere mia ma ancora non lo sapevo. L'autorità superiore che aveva assunto potere decisionale al posto mio e dei miei genitori disse No. E così Amsterdam è stato il viaggio che non ho mai fatto. Il viaggio che non si può fare. Il treno perso, l'occasione sfuggita o molto di più, ciò che non ha potuto esistere. Asterdam è la mia adolescenza perduta, la mia adolescenza in ostaggio. Avevo 19 anni. Al loro ritorno mi hanno portato una T-Shirt, il loro pezzo di Amsterdam da regalarmi, l'ombra della vita non vissuta rimasta per una beffa del destino attaccata al muro. Una T-Shirt larghissima, dentro cui mi perdevo. Color carta da zucchero, con una scritta multicolori, Amsterdam appunto, e una bicicletta dello stesso colore della scritta. Questa è Amsterdam per me. Una maglia che non ho mai indossato ma che custodisco gelosamente nell'armadio perchè è una traccia indelebile del passato, dell'inesistenza a cui mi sono obbligata. Non ci sono tornata, Amsterdam è ancora il viaggio che non ho mai fatto. E' la decisione che non sono stata capace di prendere. Perchè di fronte all'idea di avere tutta quella libertà, tutto quel potere, il potere di essere una persona qualsiasi, che va ad una stupida gita di liceali in fibrillazione, io ho detto no. Eppure Amsterdam è trasgressione, lo sa pure mia nonna. C'è il sesso, la droga, dispensati a tutti come caramelle. Ci sono case colorate, allegre biciclette e i quadri traboccanti di colore degli Impressionisti. La follia di Van Gogh, la sua notte stellata, i bulbi dei tulipani, i mulini a vento. La gente che si veste a caso. I funghetti allucinogeni e se vuoi fare sul serio, acidi e pasticche e tanto altro. Ci sono gli Erasmus e la musica, i rave e locali in cui ballare Tecno. Amsterdam è il luna park della vita, dove puoi dimenticare chi sei, e io sono una specialista in questo, molto più che in qualsiasi altra città del mondo. Amsterdam era davvero un'occasione perchè se non la vedi quando sei adolescente, non la vedrai mai più. Solo allora rappresenta la vetrina colorata che ti promette una psichedelia di desideri da lasciarti tramortito. E anche se devi fare il bravo liceale in gita con i prof martiri di turno, lo sanno tutti che passerai la sera nei Coffee Shop a stordirti di fumo o in discoteca fino al mattino, sgusciando fuori dall'albergo con le lenzuola annodate. E il giorno dopo visiterai le mostre come uno zombie, ravvivandoti solo davanti alla prospettiva di un'altra notte di follia. Amsterdam è il balocco d'Europa, è la città delle fughe, dove combinare disastri, la città dei sacchi a pelo e dell'Interrail. Non per me, no. Amsterdam per me è solo ciò che non è stato. E che non sarà mai più.

Tuesday, November 07, 2006

Lisbona, il tempo della rabbia

Lisbona.

Una città che per associazione di idee mi porta ad una situazione che fa male. E questo mi dispiace perchè se mai ci andrò, so che ne sarò inevitabilmente influenzata.
A volte le città sono come le persone. Portano segni addosso di qualcosa che è passato e vedere una città con questi segni può essere un'esperienza unica. Sono come le persone perchè influenzate dagli stati d'animo che hai quando le visiti per la prima volta, o anche la seconda e la terza, e anche solo quando le pensi, come le 1000 volte che ho pensato la mia NY. E infatti per me lei è un crogiuolo di stati d'animo diversi, è un vulcano, una bomba atomica. Sono come i vestiti, perchè s'impregnano dell'odore dei sentimenti e delle emozioni, cambiano con la luce e con le stagioni, sembrano vecchissimi o all'avanguardia in base alla giornata in cui li metti. Sono come i sogni perchè le puoi girare il lungo e in largo e chiederti il significato del tuo percorso. E soprattutto perchè puoi ricostruirtele in testa e girarle semplicemente chiudendo gli occhi. O magari dormendo. Io un sacco di volte nei miei sogni sono stata a NY ed era sempre diversa e sempre identica.
Comunque, tornando a Lisbona. Per me è una lunga strada in discesa che va verso il mare. Pescatori e profumo di pesce fritto. Tram. Anni '60. Tramonti. Osterie. Ragazzi con ideali forti. Oceano in lontananza che sa di America.
Ma è anche un dolore sordo che rimbomba nelle pieghe di una giornata come oggi dove una serie di associazioni fatte per necessità me la ricordano mentre vorrei solo scordarla. E' un urlo di rabbia gridato dove nessuno può sentire. E' il pugnale di un pescatore che pulisce il pesce con forza, facendone schizzare pezzi tutt'intorno. E' il pugno di un uomo scagliato contro qualcosa per vendicare un'antica offesa. E' come un'osso spezzato che continuerà per giorni a fare male. Sopportandone il dolore. Vedete la foto che c'è sopra? S'intitola "Tram a Lisbona". L'ho trovata mentre non la stavo cercando. I tram mi piacciono. Lisbona no. Richiama questa giornata di dolore e rabbia perchè incrocia il suo cielo con quello grigio di Milano formando un colore indefinibile. Un colore che non esiste. Ma non dirò nulla che riconduca al cuore del problema perchè dopotutto io sono solo una traccia telematica. Snocciolo mucchi di lettere sulla superficie nera come resti di ossa spezzate. Mi appresto ad esplorare luoghi che non conosco. E non so se ci andrò mai, a Lisbona, non so se mi toglierò di dosso quella puzza di pesce e quei deliri che evoca. Per poter essere finalmente libera di vederla per quello che è. Un insieme di strade, piazze, case, negozi...che assumono una forma strana, la forma di un sogno, di quelli che fai con lo stomaco pieno e ti lasciano un po' stordito, la mattina, e desideroso di un bicchier d'acqua.

Il tempo della rabbia è un'epoca strana. Un evento ricorrente come le stagioni, imbrigliato nella dimensione del tempo circolare di omerica memoria. Il tempo della rabbia arriva quando non lo aspetti, come un temporale d'estate e spazza via tutto quello che c'è di modo che ogni volta devi ricostruire quasi da capo. Non ha senso descriverlo con le parole perchè nel tempo della rabbia di parole non ce ne sono mai e anzi, di solito navigano controvento.

Friday, November 03, 2006

Angeli sopra Berlino (e demoni sotto...)


Non l'ho mai vista ma l'ho immaginata. Berlino. Molte volte nella mia testa, molti sguardi, molti profili, prospettive di questa metropoli. Berlino è entrata nella mia vita a 14 anni, quando ho letto per la prima volta il best seller di Christiane F., Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino, visto per caso nella libreria di un'amica e chiesto in prestito e letto avidamente, in pochi giorni. Non avendola mai visitata per me Berlino è solo questo, e qualche immagine sfuocata del crollo del muro, nell'89, quando ero ancora alle medie e facevamo a riguardo discussioni in classe e ritagliavamo piccole foto dai giornali per fare le ricerche. Ma era tutto troppo lontano ancora dalle nostre menti preadolescenti, così accelerate nella crescita da sostare rapidamente e con impazienza nel pensiero. Non la mia, ma i pensieri erano altri, ed erano lontani da Berlino. Più vicini a Christiane, che immaginavo nella sua magrezza e nei suoi capelli lisci e slavati e nello sguardo da innocente angelo della morte. E pensavo spesso anche ai suoi jeans cuciti addosso e al trucco con cui cercava di mascherare i suoi 13 anni per andarsi a prostituire. Avevo poco più della sua età, io, ed ero così incerta ed esitante che desideravo provare sigarette nei campetti dietro la scuola, nascosta dietro una pianta con una mia amica e poi scrivevo molto con la mia macchina da scrivere nuova che era il massimo che potevo permettermi. Pensavo a Christiane e al suo mondo metropolitano al Bahnhof Zoo fatto di pericolo e di morte sfiorata con la leggerezza dell'adolescenza. Volevo essere come lei e mi procuravo scarpe di pelle con il tacco e jeans stretti. Volevo essere la piccola tossica che scendeva in gran segreto nel mondo di cui gli adulti non si accorgono mai: ma il suo mondo era così distante dal mio, così sotterraneo e insidioso, il suo mondo della metropolitana, speculare alle strade e alla città, mondo a rovescio e misterioso, dove il sesso e la droga erano un unico grande presente che cancellava il passato e inghiottiva il futuro. Nel mio mondo non c'era la metropolitana. Christiane e i suoi amici bruciati come atomi in una fusione nucleare, evaporati nel fumo della marijuana, dentro gabinetti sporchi o tra i letti sfatti di sordidi motel. I ragazzi dello Zoo di Berlino sono cucchiaini e fiammiferi e polvere bianca e bugie e sesso meschino. E Berlino una madre che è già andata via.

Thursday, November 02, 2006

Sogno dell'immobilità

Essere così come nei sogni, dove chi deve piangere piange e chi deve chiere pietà chiede pietà...

Questo sogno va a toccare punti di estrema delicatezza, zone dov'è concentrato tutto. E' uno dei cosiddetti sogni ricorrenti.
Ci sono io e una persona affettivamente importante ed altre persone, tutte vicine alla mia vita, nel presente o nel passato.
Io non cammino e sono su una sedia a rotelle. Ma nel sogno non è affatto chiara la situazione: non so se non cammino perchè non voglio, perchè non posso, perchè le mie gambe sono troppo deboli per sostenermi, o perchè hanno qualcosa, di volontario o di involontario, che non le fa funzionare. Guardo quindi il mondo da questa prospettiva, seduta, senza potermi muovere e quindi senza poter gestire appieno la mia vita. Mi sento dipendente dagli altri e in modo particolare da una persona che riveste per me un ruolo materno. Quando questa persona improvvisamente si trova impossibilitata a seguirmi, rimango sola e devo cercare di spostarmi nel mondo su questa sedia a rotelle. La nostalgia di lei è forte: la penso sempre, desidero averla accanto. Ma sono sola e mi trovo nella mia vecchia parrocchia. Il piazzale è pieno di ragazzi, a partire dai bambini fino ad arrivare ai giovani, che sono in attesa di riunirsi per gli incontri di catechismo. Una sorta di primo giorno di scuola del catechismo. Mi sento disorientata, cerco di avvistare visi noti ma sono stata talmente lontana da quell'ambiente che non sono sicura mi riaccoglieranno, anche se mi trovo in una situazione di evidente bisogno. Riconosco qualcuno, qualche compagna e poi c'è il parroco. Proprio lui che ha sempre covato una certa ostilità nei miei confronti perchè non ero come si aspettava, lui da cui ho cercato di fuggire ed ora mi trovo a dovermi riavvicinare. Lui mi guarda sempre da lontano, mettendomi a fuoco e dimostrandomi di avermi vista, ma senza mai sorridermi. In qualche modo vengo accolta dal gruppo, anche se non calorosamente, sto ai margini, osservando, sperando che qualcuno mi tenda una mano. E una persona lo fa, una vecchia compagna di scuola. Mi riaccompagna verso casa terminato l'incontro e forse, ma non ne sono sicura, provo ad alzarmi e appoggiandomi alla carrozzina, a muovere qualche passo. Intanto ho ricominciato a sentirmi parte di quel gruppo, e loro si sono ricostituiti come punto di riferimento nella mia vita. Penso soddisfatta a quando li rivedrò, a quando starò in mezzo a loro durante la messa.
Eppure continuo a non sapere che cos'hanno le mie gambe. E' come se non fossero neanche attaccate a me, come se avessero vita propria e il potere di decidere come comportarsi, se funzionare o no. Per un attimo ho il dubbio di poterle usare, di provarci davvero, che la situazione presente non è una condanna e non è immutabile ma posso fare la differenza. Ma so che sto tornando a casa e troverò quella figura materna che mi ridarà il potere di continuare a non camminare.