Monday, December 11, 2006

ViKtoria 2260

Lanugine di umidità,polvere di pioggia,chiacchiere che scivolano lievi sulle superfici di corpi infreddoliti surriscaldati da alcool e cibo. Una sera come tante e come nessuna. Nuova emozione del vivere quotidiano che sembra inghiottire tutti in questo presente spalmato sulla realtà: non c'è differenza e ogni giorno sembra aderire all'altro in una piramide di noia o nostalgia. Di quando tutto pareva avere un senso e non serviva costruire castelli di parole così, per fare qualcosa.
Decidere che cosa fare, avere qualcosa da fare in mezzo a chiacchiere di vite tutte uguali: e nessuno scopo. Non voglio essere come loro, mi dicevo. Supplicavo a me stessa, e le lacrime interne iniziavano a scorrere. Inondavano me. Tanto nessuno può vederle. Ed anche il carosello di scopi apparenti e tutti parziali che mi mostrano persone ben inserite e ben adattate mi sembrano disegni di fumo. Non esiste lo scopo assoluto. La vita è frammentazione di piccoli scopi che si rincorrono un giorno dopo l'altro. E' l'equilibrio di orizzonti relativi da porre in fila, e che costituiscono il tempo che avanza, il tempo dell'evoluzione.
E mi viene da piangere a pensare che proprio loro, le due persone che mi hanno dato alla luce, hanno messo come gadget alla mia esistenza un senso di perfezione così immobile da non potersi nemmeno avvicinare. Non voglio dare colpe, distribuire colpe a chi si profila all'orizzonte. Non è un discorso di colpe, insomma. E' un problema di scopi e confronti e altre cose simili; limiti forse, o essere nati per compiacere qualcuno e sostenerlo nella sua incapacità di vivere.
Vorrei trovare un senso, anche piccolo, in questo momento, alla mia vita. Qualcosa che sia mio e che gli altri rispettino in quanto tale. Sentirmi unica, separata ma in collegamento. Non sola e non attaccata, e non vivere come un sostegno per confermare agli altri che esistono. Che sia un'utopia pensare di essere qualcosa di proprio, autonomo, adulto e affettivamente stabile?

Wednesday, November 29, 2006

Polvere di stelle


Polvere di stelle.
Residui di un'esplosione. Mattinata col ricordo di un pianto sfogato e una finta felicità. Hai guardato le mie lacrime scendere, senza dire nulla, e questo mi basta.
Ricoprire il dolore con carta da regalo. Il pensiero che forse non saremo più quello che siamo ora e il futuro, da qui ad aprile, sarà un rutilante carosello prima di andare a dormire.
Sciarpe calde e maglioni. Siamo persone semplici, e pure e forse i caroselli non ci piacciono più di tanto. E' stata una scia indefinibile di eventi a farci ritrovare in quella stanza, a vivere insieme metà giornata, notte esclusa. Ma quello non è il porto, solo una stazione di passaggio. Dove veder bruciare incensi di patchouli insieme al proprio personale dolore. Estremamente dignitoso, ma denso.
E a parlare di morfina mi viene proprio voglia di sperimentarne gli effetti, o da malata o da tossica, o da arrivata alla fine del mondo. Vorrei perdermi in visioni che mi portano lontano o sentirmi leggera come se i miei polmoni funzionassero ad elio. O forse questo brillante squallore natalizio di luci e carte dorate altro non è che una versione stagionale di tali visioni e io sono già partita e non lo so. Se tutto finirà non voglio essere qui a guardare la fine. Lo so, è un mio limite, non so tollerare fini e affini. Poi a distanza di anni le smonto come stupide torri di lego, le rendo trasparenti e ci guardo attraverso come lenti colorate. A distanza di anni il dolore del presente si trasforma in un'impronta indurita e indefinita che non sapresti più far risalire ad un proprietario. Il dolore del presente è un mostro da gestire, per il quale mi trovo sempre sprovvista di attrezzature: e mi chiedo, che prezzo potrà avere una felicità costruita?E' vero che la felicità è sempre costruita e ha sempre un prezzo?Eppure, io so fare solo questo, queste piccole stupide costruzioni che mi fanno sentire viva e tangenzialmente ancorata a qualche relazione. Una piccola e stupida vita, un piccola e stupida persona. E basta.

Monday, November 27, 2006

Nebbia e pianto


Scazzo totale. Nebbia. Pianto. Natale alle porte. Ultimo giorno dell'anno. Poesia. Pazzia. Cenere. Navigli.
Segreti. Ombre. Unghie che sgranocchio incessantemente.

In questo ultimo periodo dici cose centrali.

Già...ma io dove sono? Dove sono mi chiedo, mentre la mia vita vive?

L'ultima frontiera dove sta il segreto della mia vita: perchè, mi chiedo, questo terrore di essere alle ultime pagine, come se tutto fosse in procinto di finire, il mistero di disvelarsi, e la mia vita uno specchio senza segreto, che precipita in sè stesso senza fine?

Questi sogni che non riesco a ricordare, e le luci delle strade dei negozi, che non so recuperare, non so restituire alla magia delle feste se non di quel Natale centrale in cui ho iniziato a morire?

27 NoVembre

Mi dispiace che questo blog sia diventato un oscuro viaggio nelle mie elucubrazioni.
Non volevo, o meglio, ero sicura che avrei saputo gestirlo "sportivamente". Vi trascrivo un brano di un romanzo molto bello:

"Ancora prima di girarlo, sapevo già che cos'era: il ritratto di Rosa che avevo visto in casa di Lena, riposto insieme ad altri sul ripiano più alto del guardaroba. In bianco e nero, coglieva Rosa di tre quarti, dalla vita in su, con il seno che si intravedeva nella scollatura della vestaglia; il viso non truccato, i capelli neri umidi e scompigliati come se fosse appena uscita dalla doccia; la tazza in mano, anelli a tutte le dita, pollice compreso. Non in posa, come se non si fosse accorta di essere fotografata: guarda qualcosa o qualcuno fuori campo, o forse non guarda niente. Sorride. E' in comunita e sorride rilassata, spontanea, incurante di quello che pensano gli altri di lei, indifferente. Sembra non aver bisogno di dire: "Questa sono io"; sembra contenta di essere semplicemente sè stessa, quasi canticchiasse fra sè "Sono io, sono io". Nonostante gli abusi, lo sfruttamento subito a livello fisico, emotivo e sessuale...Rosa possedeva, possiede un'inviolabilità di fondo. "Non potete toccarmi". Mi sono reso conto che non ero abbastanza grande per contenerla, abbastanza forte per sollevarla dove lei non riusciva ad arrivare da sola. Sono stato l'ultimo di una lunga serie di persone che l'hanno allontanata dalla sua unica vera fonte di libertà: sè stessa."

Martin Bedford "La ragazza Houdini"

Le figure femminili nella letteratura sono affascinanti. E anche nella vita. A volte penso che le donne hanno una potenza straordinaria, che gli uomini non hanno e non avranno mai.
Le donne della mia vita sono tante, e ognuna è limpida e rilevante come una goccia d'acqua su un filo d'erba.

Wednesday, November 22, 2006

Inquietudine

Oggi sento profonda inquietudine. Vivo profonda inquietudine.
Vorrei poterla toccare, per sentirla più viva.
Perchè è fisica, materiale, presente, ingombrante.
Inquietudine è un gioco, che più tanto sottile non è, una persona fra noi, un modo che hai di guardarmi quando io volutamente non ti guardo, e lascio scivolare nella coda dell'occhio, nel punto più sottile e tagliente di percezione delle cose, il tuo sguardo.
Inquietudine è l'emozione più difficile da vivere, da pensare.
Perchè quando lascio cadere gli sguardi lì vuol dire che sto male, in quel modo particolare in cui sto male io.
Come faccio a capire se un giorno smetterò.
Se un giorno, finalmente, non lascerò più scivolare gli sguardì lì, come se fossero lacrime sbagliate, e avrò finalmente la forza di tenerli al centro.
Quel giorno forse vedrò la mia superficie forte, compatta e non in sfaldamento, come un golf infeltrito.

Tuesday, November 21, 2006

Amsterdam swing




Che vi devo dire? Il post che ho scritto su Amsterdam non mi è piaciuto. Vorrei forse non averlo scritto. Ma non si può tornare indietro nè si può cancellare ciò che è stato. Quel post è quello che è e quello che è stato. Ma non necessariamente ciò che sarà.
Comunque...
Vorrei pensare con convinzione che quella non sarà per sempre la mia Amsterdam, non sarà per sempre un triste blues. Ma potrà diventare un brioso swing. Amsterdam sarà qualcosa di nuovo quando avrò l'occasione di andarci. Non sarà ciò che non è stato.
Sarà ciò che deve ancora essere, una possibilità racchiusa nel futuro.
Qualcuno ha parlato di "nostalgia del futuro" come sentimento di nostalgia verso quello slancio che normalmente si ha in adolescenza e che piano piano si attenua con l'avvicinarsi all'età adulta. E' dura pensare di averlo incanalato male, a suo tempo, talmente male da aver provocato profonde incrinature nella propria esistenza. Talmente male da avere ricordi duri come questo di Amsterdam. Nostalgia del futuro è pensare che non potrà mai cambiare. Ma non ho ancora capito se il cambiamento esiste.
A volte penso che vorrei essere un'altra persona eppure se non fossi io, ciò che sono stata, non mi riconoscerei. Ciò che sono oggi è l'anello di congiunzione tra un passato non troppo lontano e quello che sarà. Ma il futuro arriverà o sarà sempre comunque un eterno presente?
Mi piace pensare alla nostalgia del futuro come a un dolce swing o ad un roco blues che risuona tra le vecchie vie corrotte di New Orleans...ah New Orleans, una città dove andavo con la mente tanto tempo fa. C'è un post che aspetta per questo. Domani, forse...
Ieri è stata una giornata di sonno, e di ritorno ad un nucleo caldo e profondo.
Non mi ci immergo più come una volta, per trovare riposo e conforto. Ora, è come un appartamento in sfratto, mi aspetto d'essere buttata fuori da un momento all'altro. Precarietà. Ho sempre un piede dentro e un piede fuori, da tutte le cose. Sono sempre un po' fuori dalla porta, non riesco mai ad entrare e pensare di poter abitare qualcosa profondamente. Fermarmi, sedermi, rilassarmi. Nostalgia del futuro, nostalgia di un posto caldo che possa essere casa tua.

Tuesday, November 14, 2006

BLACK AND WHITE

L'ho buttato fuori dopo giorni e giorni che stava lì e non andava nè su nè giù (citazione da "Ovosodo" di Virzì). L'ho espulso e adesso mi sento un po' meglio. Se non altro mi sembra di poter respirare. Ieri quando mi hai chiesto "Cos'è che non riesci a dire?" o una frase simile, purtroppo non la ricordo perfettamente, ho sentito che eravamo al punto. (Sarebbe bello poter ricordare la frase esatta...)Mi sono affidata a quello che stavo provando, perchè non era semplice in quel momento vedersi dall'esterno e capire cosa stava succedendo. So che è come se avessero tolto un tappo. Il bisogno di identificazione non può essere così forte da annullare la propria identità, da annullare le diversità, da espandere l'esigenza di essere una persona sola fino a sentirsi soffocati dentro l'esistenza di un altro. E quando ti ho detto quella frase non era per offenderti, ma tu l'hai capito credo. E' che non ce la facevo davvero a stare nella comunione perfetta. Pensando che finiva tutto lì, che oltre non c'era nulla. Ma forse davvero tu hai capito, e queste cose le sto dicendo più a me stessa, stupita di aver tirato fuori un rospo così grosso in così breve tempo e senza troppi danni. Vorrei fossimo un colore unico, vorrei essere del tuo stesso colore, ma anche se fossimo tu bianco e io nero non cambierebbe il sentimento che ci lega. Anche se fossimo io un gatto e tu un topo potremmo abbracciarci così. E' possibile stare insieme nella diversità. Ma è possibile stare insieme nella distanza? Ma come tu hai detto, c'è un altro aspetto del legame che è molto più primitivo e più viscerale ed è quello che mi mette le catene, è quello a cui non so rinunciare. Non so se si era già visto sugli schermi uno strappo rabbioso come questo. Forse sì, ma non ero mai riuscita a vederlo così bene, ad esprimerlo così bene.


Sunday, November 12, 2006

Amsterdam blues



Quando me lo sono venute a dire era pomeriggio, credo. Lì dentro il tempo non esisteva più. Le ho incontrate nel corridoio. Un pomeriggio d'inverno con i neon accesi. O forse un pomeriggio con il lungo tramonto rosa che lasciava una scia di luce stanca. "Andiamo in gita ad Amsterdam, vieni?" Travolta. Non sapevo cosa rispondere. Perchè da un po' ero fuori dalla classe, fuori dal tempo, fuori da me stessa. Infagottata in grossi maglioni. Persa La decisione poteva essere mia ma ancora non lo sapevo. L'autorità superiore che aveva assunto potere decisionale al posto mio e dei miei genitori disse No. E così Amsterdam è stato il viaggio che non ho mai fatto. Il viaggio che non si può fare. Il treno perso, l'occasione sfuggita o molto di più, ciò che non ha potuto esistere. Asterdam è la mia adolescenza perduta, la mia adolescenza in ostaggio. Avevo 19 anni. Al loro ritorno mi hanno portato una T-Shirt, il loro pezzo di Amsterdam da regalarmi, l'ombra della vita non vissuta rimasta per una beffa del destino attaccata al muro. Una T-Shirt larghissima, dentro cui mi perdevo. Color carta da zucchero, con una scritta multicolori, Amsterdam appunto, e una bicicletta dello stesso colore della scritta. Questa è Amsterdam per me. Una maglia che non ho mai indossato ma che custodisco gelosamente nell'armadio perchè è una traccia indelebile del passato, dell'inesistenza a cui mi sono obbligata. Non ci sono tornata, Amsterdam è ancora il viaggio che non ho mai fatto. E' la decisione che non sono stata capace di prendere. Perchè di fronte all'idea di avere tutta quella libertà, tutto quel potere, il potere di essere una persona qualsiasi, che va ad una stupida gita di liceali in fibrillazione, io ho detto no. Eppure Amsterdam è trasgressione, lo sa pure mia nonna. C'è il sesso, la droga, dispensati a tutti come caramelle. Ci sono case colorate, allegre biciclette e i quadri traboccanti di colore degli Impressionisti. La follia di Van Gogh, la sua notte stellata, i bulbi dei tulipani, i mulini a vento. La gente che si veste a caso. I funghetti allucinogeni e se vuoi fare sul serio, acidi e pasticche e tanto altro. Ci sono gli Erasmus e la musica, i rave e locali in cui ballare Tecno. Amsterdam è il luna park della vita, dove puoi dimenticare chi sei, e io sono una specialista in questo, molto più che in qualsiasi altra città del mondo. Amsterdam era davvero un'occasione perchè se non la vedi quando sei adolescente, non la vedrai mai più. Solo allora rappresenta la vetrina colorata che ti promette una psichedelia di desideri da lasciarti tramortito. E anche se devi fare il bravo liceale in gita con i prof martiri di turno, lo sanno tutti che passerai la sera nei Coffee Shop a stordirti di fumo o in discoteca fino al mattino, sgusciando fuori dall'albergo con le lenzuola annodate. E il giorno dopo visiterai le mostre come uno zombie, ravvivandoti solo davanti alla prospettiva di un'altra notte di follia. Amsterdam è il balocco d'Europa, è la città delle fughe, dove combinare disastri, la città dei sacchi a pelo e dell'Interrail. Non per me, no. Amsterdam per me è solo ciò che non è stato. E che non sarà mai più.

Tuesday, November 07, 2006

Lisbona, il tempo della rabbia

Lisbona.

Una città che per associazione di idee mi porta ad una situazione che fa male. E questo mi dispiace perchè se mai ci andrò, so che ne sarò inevitabilmente influenzata.
A volte le città sono come le persone. Portano segni addosso di qualcosa che è passato e vedere una città con questi segni può essere un'esperienza unica. Sono come le persone perchè influenzate dagli stati d'animo che hai quando le visiti per la prima volta, o anche la seconda e la terza, e anche solo quando le pensi, come le 1000 volte che ho pensato la mia NY. E infatti per me lei è un crogiuolo di stati d'animo diversi, è un vulcano, una bomba atomica. Sono come i vestiti, perchè s'impregnano dell'odore dei sentimenti e delle emozioni, cambiano con la luce e con le stagioni, sembrano vecchissimi o all'avanguardia in base alla giornata in cui li metti. Sono come i sogni perchè le puoi girare il lungo e in largo e chiederti il significato del tuo percorso. E soprattutto perchè puoi ricostruirtele in testa e girarle semplicemente chiudendo gli occhi. O magari dormendo. Io un sacco di volte nei miei sogni sono stata a NY ed era sempre diversa e sempre identica.
Comunque, tornando a Lisbona. Per me è una lunga strada in discesa che va verso il mare. Pescatori e profumo di pesce fritto. Tram. Anni '60. Tramonti. Osterie. Ragazzi con ideali forti. Oceano in lontananza che sa di America.
Ma è anche un dolore sordo che rimbomba nelle pieghe di una giornata come oggi dove una serie di associazioni fatte per necessità me la ricordano mentre vorrei solo scordarla. E' un urlo di rabbia gridato dove nessuno può sentire. E' il pugnale di un pescatore che pulisce il pesce con forza, facendone schizzare pezzi tutt'intorno. E' il pugno di un uomo scagliato contro qualcosa per vendicare un'antica offesa. E' come un'osso spezzato che continuerà per giorni a fare male. Sopportandone il dolore. Vedete la foto che c'è sopra? S'intitola "Tram a Lisbona". L'ho trovata mentre non la stavo cercando. I tram mi piacciono. Lisbona no. Richiama questa giornata di dolore e rabbia perchè incrocia il suo cielo con quello grigio di Milano formando un colore indefinibile. Un colore che non esiste. Ma non dirò nulla che riconduca al cuore del problema perchè dopotutto io sono solo una traccia telematica. Snocciolo mucchi di lettere sulla superficie nera come resti di ossa spezzate. Mi appresto ad esplorare luoghi che non conosco. E non so se ci andrò mai, a Lisbona, non so se mi toglierò di dosso quella puzza di pesce e quei deliri che evoca. Per poter essere finalmente libera di vederla per quello che è. Un insieme di strade, piazze, case, negozi...che assumono una forma strana, la forma di un sogno, di quelli che fai con lo stomaco pieno e ti lasciano un po' stordito, la mattina, e desideroso di un bicchier d'acqua.

Il tempo della rabbia è un'epoca strana. Un evento ricorrente come le stagioni, imbrigliato nella dimensione del tempo circolare di omerica memoria. Il tempo della rabbia arriva quando non lo aspetti, come un temporale d'estate e spazza via tutto quello che c'è di modo che ogni volta devi ricostruire quasi da capo. Non ha senso descriverlo con le parole perchè nel tempo della rabbia di parole non ce ne sono mai e anzi, di solito navigano controvento.

Friday, November 03, 2006

Angeli sopra Berlino (e demoni sotto...)


Non l'ho mai vista ma l'ho immaginata. Berlino. Molte volte nella mia testa, molti sguardi, molti profili, prospettive di questa metropoli. Berlino è entrata nella mia vita a 14 anni, quando ho letto per la prima volta il best seller di Christiane F., Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino, visto per caso nella libreria di un'amica e chiesto in prestito e letto avidamente, in pochi giorni. Non avendola mai visitata per me Berlino è solo questo, e qualche immagine sfuocata del crollo del muro, nell'89, quando ero ancora alle medie e facevamo a riguardo discussioni in classe e ritagliavamo piccole foto dai giornali per fare le ricerche. Ma era tutto troppo lontano ancora dalle nostre menti preadolescenti, così accelerate nella crescita da sostare rapidamente e con impazienza nel pensiero. Non la mia, ma i pensieri erano altri, ed erano lontani da Berlino. Più vicini a Christiane, che immaginavo nella sua magrezza e nei suoi capelli lisci e slavati e nello sguardo da innocente angelo della morte. E pensavo spesso anche ai suoi jeans cuciti addosso e al trucco con cui cercava di mascherare i suoi 13 anni per andarsi a prostituire. Avevo poco più della sua età, io, ed ero così incerta ed esitante che desideravo provare sigarette nei campetti dietro la scuola, nascosta dietro una pianta con una mia amica e poi scrivevo molto con la mia macchina da scrivere nuova che era il massimo che potevo permettermi. Pensavo a Christiane e al suo mondo metropolitano al Bahnhof Zoo fatto di pericolo e di morte sfiorata con la leggerezza dell'adolescenza. Volevo essere come lei e mi procuravo scarpe di pelle con il tacco e jeans stretti. Volevo essere la piccola tossica che scendeva in gran segreto nel mondo di cui gli adulti non si accorgono mai: ma il suo mondo era così distante dal mio, così sotterraneo e insidioso, il suo mondo della metropolitana, speculare alle strade e alla città, mondo a rovescio e misterioso, dove il sesso e la droga erano un unico grande presente che cancellava il passato e inghiottiva il futuro. Nel mio mondo non c'era la metropolitana. Christiane e i suoi amici bruciati come atomi in una fusione nucleare, evaporati nel fumo della marijuana, dentro gabinetti sporchi o tra i letti sfatti di sordidi motel. I ragazzi dello Zoo di Berlino sono cucchiaini e fiammiferi e polvere bianca e bugie e sesso meschino. E Berlino una madre che è già andata via.

Thursday, November 02, 2006

Sogno dell'immobilità

Essere così come nei sogni, dove chi deve piangere piange e chi deve chiere pietà chiede pietà...

Questo sogno va a toccare punti di estrema delicatezza, zone dov'è concentrato tutto. E' uno dei cosiddetti sogni ricorrenti.
Ci sono io e una persona affettivamente importante ed altre persone, tutte vicine alla mia vita, nel presente o nel passato.
Io non cammino e sono su una sedia a rotelle. Ma nel sogno non è affatto chiara la situazione: non so se non cammino perchè non voglio, perchè non posso, perchè le mie gambe sono troppo deboli per sostenermi, o perchè hanno qualcosa, di volontario o di involontario, che non le fa funzionare. Guardo quindi il mondo da questa prospettiva, seduta, senza potermi muovere e quindi senza poter gestire appieno la mia vita. Mi sento dipendente dagli altri e in modo particolare da una persona che riveste per me un ruolo materno. Quando questa persona improvvisamente si trova impossibilitata a seguirmi, rimango sola e devo cercare di spostarmi nel mondo su questa sedia a rotelle. La nostalgia di lei è forte: la penso sempre, desidero averla accanto. Ma sono sola e mi trovo nella mia vecchia parrocchia. Il piazzale è pieno di ragazzi, a partire dai bambini fino ad arrivare ai giovani, che sono in attesa di riunirsi per gli incontri di catechismo. Una sorta di primo giorno di scuola del catechismo. Mi sento disorientata, cerco di avvistare visi noti ma sono stata talmente lontana da quell'ambiente che non sono sicura mi riaccoglieranno, anche se mi trovo in una situazione di evidente bisogno. Riconosco qualcuno, qualche compagna e poi c'è il parroco. Proprio lui che ha sempre covato una certa ostilità nei miei confronti perchè non ero come si aspettava, lui da cui ho cercato di fuggire ed ora mi trovo a dovermi riavvicinare. Lui mi guarda sempre da lontano, mettendomi a fuoco e dimostrandomi di avermi vista, ma senza mai sorridermi. In qualche modo vengo accolta dal gruppo, anche se non calorosamente, sto ai margini, osservando, sperando che qualcuno mi tenda una mano. E una persona lo fa, una vecchia compagna di scuola. Mi riaccompagna verso casa terminato l'incontro e forse, ma non ne sono sicura, provo ad alzarmi e appoggiandomi alla carrozzina, a muovere qualche passo. Intanto ho ricominciato a sentirmi parte di quel gruppo, e loro si sono ricostituiti come punto di riferimento nella mia vita. Penso soddisfatta a quando li rivedrò, a quando starò in mezzo a loro durante la messa.
Eppure continuo a non sapere che cos'hanno le mie gambe. E' come se non fossero neanche attaccate a me, come se avessero vita propria e il potere di decidere come comportarsi, se funzionare o no. Per un attimo ho il dubbio di poterle usare, di provarci davvero, che la situazione presente non è una condanna e non è immutabile ma posso fare la differenza. Ma so che sto tornando a casa e troverò quella figura materna che mi ridarà il potere di continuare a non camminare.

Tuesday, October 31, 2006

Sliding doors


Per tutto il giorno ho avuto la sensazione di essere in quello stupido film. Per tutto il giorno ho rincorso a cento all'ora una coincidenza. Ora sono molto stanca e vuota e vorrei solo dormire.
Però il pensiero che la vita possa costruirsi sugli equilibri delle coincidenze, o sugli squilibri della sorte mi rincorre e mi rincorrerà anche stanotte. Io l'ho rincorsa quella coincidenza, l'ho acchiappata e atterrata come un pallone da rugby sulla meta, mettendoci tutto il mio impegno, tutta l'energia che avevo in corpo, un furore fisico e muscolare, o forse uno strappo di disperazione. Poi ho lasciato defluire l'impennata di adrenalina e dopo, solo dopo, ho guardato la cosa e ho cercato di dirmi che sono stata brava, perchè era un'occasione difficile, se non impossibile, e il destino non mi premierà, ma l'ho fatto per me stessa, l'ho fatto per provarci, senza pensare al risultato anzi sapendo che ne uscirò sconfitta. E' difficile fare qualcosa senza un ritorno, in qualche forma. Me ne sono resa conto. Volendo sottilizzare potrei concludere che un motivo, se l'ho fatto, forse c'era. Ma non era una gratificazione, non era un obiettivo, ovvero lo era solo nominalmente, apparentemente. Dentro so che l'ho fatto per farlo, per farcela, per non arrendermi. E vorrei tanto esserne semplicemente contenta.

2/11/06

Succedono così tante cose nella mia testa in questo momento. Non ce l'ho fatta a non ripensarci ancora, a non riattraversare la rosa di emozioni una dopo l'altra, a non costruirci sopra dei sogni, a non riaprire insomma tutto il capitolo a 360°. Va bè, ci sono il solito mix concentrato di emozioni che il mio sistema psichico giornalmente produce, con una precisione genetica. Poi c'è una nuova fotografia di me che mi sono ritrovata dentro, come certe foto che rimangono impresse sulla macchina digitale e non ti ricordi dove come perchè le hai fatte (questa metafora per sottolineare, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, la millimetrica casualità e la istantaneità con cui accadono certi processi). Io che provo per il gusto di provare, di mettermi in gioco. Io che faccio una cosa non per il risultato nè per la cosa in sè, ma la faccio perchè il farla è già un valore aggiunto. Io che abbraccio il detto "L'importante è partecipare" e lo vivo fino in fondo, con la consapevolezza di chi non è più adolescente ma è già adulto e quindi sa di dover deporre l'arma dell'onnipotenza nell'armadio dei ricordi. Con la perseveranza di chi ha finalmente attraversato la terra di mezzo ed è arrivato nella realtà.
Io improvvisamente più saggia e più sola e più cosciente della vita e di quello che può dare o togliere.
Non posso dire che questa cosa mi abbia fatto improvvisamente amare me stessa, questo proprio no. Però è successo qualcosa di rilevante nella direzione del vedermi più a fuoco, più definita.

Monday, October 30, 2006

Sogno dei vecchi giocattoli

Questo sogno in realtà l'ho fatto qualche tempo fa, però mi ha lasciato una sensazione così epidermica che ogni tanto lo rivedo nella mente e mi ci sento ancora dentro. Specialmente dopo quello che è accaduto oggi. Ero nella mia casa vecchia, con la mia famiglia. Tornavamo a vivere lì, senza trasloco, senza preoccuparci se ci abitava qualcuno. Bastava una chiave ed eravamo dentro. Già lasciare la casa attuale era difficile. Poi, una volta entrati, mi rendevo conto che quell'appartamento era rimasto disabitato. Ma era in rovina. Alcune stanze erano vuote, come appena dopo un trasloco. In altre, come per esempio nella nostra camera, c'erano ancora i mobili ma spaccati, accatastati, sporchi. Come se non solo fossero rimasti lì questi 20 anni o quelli che sono, ma come se il tempo li avesse deteriorati. Nei cassetti e sulle mensole c'erano ancora i miei vecchi giocattoli: in particolare la mia scatola di lego, patrimonio prezioso. Ma era tutto mummificato. I personaggi avevano i volti scheletriti e le ragnatele, come materiale biologico in decomposizione, come gli zombie di certo immaginario horror. C'era anche qualcosa di intero, per lo più boccetti di shampoo o altri accessori per il corpo. Tutto il resto giaceva provato dal tempo, ma non solo, qualcosa di più...come se fosse rimasto lì, ci fosse ancora ma consumato, asciugato, esattamente come certi ricordi, che rimangono lì ma non vivono, sono come le ombre di qualcosa che è svanito, che si è polverizzato. Non ci sono parole per il dolore che provavo. Era molto più della sofferenza per una morte. Esaminavo le mie cose, scioccata. Erano poi tutte sparpagliate, come dopo un furto, come se avessero messo a soqquadro. Ecco, il paradosso: sembrava che fosse rimasto tutto immobile da quando ce ne eravamo andati, ma invece era tutto cambiato, si era mescolato e sconvolto, si era perso, rotto o spostato. Aprivamo le finestre, facevamo aria ma era tutto inutile. Era impossibile viverci, ma proprio emotivamente. Così impossibile che non ce l'ho più fatta, ho abbandonato la mia casa, il mio passato e quel sogno impossibile.

Sunday, October 29, 2006

Esplorazioni sulla metropoli: Milano


E' veramente, veramente complicato come mi sento io dentro Milano. Ieri sera percorrevo via Carlo Botta verso Porta Romana per prendere la metro, direzione Rogoredo. Sabato sera, quasi ora di cena. A quell'ora ci sono 2 Milano: quella che si prepara a vivere la notte "fuori" e quella che si prepara a vivere la notte "dentro". Finestre illuminate sono gli occhi delle case che si riscaldano di intimità. Strade illuminate, locali dalle luci soffuse, stazioni della metro, portici, stazione ferroviaria sono i ripari di chi vive la notte fuori. Di chi si espone alla paura ancestrale di non avere un riparo ed essere sbranato vivo. Milano è molto più metropoli, per me, di altre, per esempio di Roma. Perchè è più irregolare, più nordica, più vicina all'idea di freddo e buio. C'è meno armonia, gli angoli sono appuntiti e le separazioni, le emozioni, sono nette e forti, senza vie di mezzo. Roma è più conciliante, più materna.
Insomma Milano è tutto quello che accade fuori, di notte, è un sabato sera di sballo e una domenica di torpore. Tutto quello che può succedere là fuori mentre tu sei in transito, in passaggio tra due dentro che non ti appartengono.
Milano è il ricordo dell'impossibilità di esistere, e nostalgia per la trasmutazione, quando puoi essere tutto, o niente, allo stesso tempo. E' il cuore dell'adolescenza ribelle e trasgressiva, che non può essere contenuta in niente, ma è alla ricerca disperata di qualcosa che la contenga. Milano è una ragazza che si taglia, vomita e scappa.




24/9/06
La stazione è un crocevia dove si scontrano i destini di un sacco di gente, a volte per pochi attimi, a volte per ore, o per sempre. Guardi una persona, le senti pronunciare una frase e da lì ricostruisci, immagini. Un tossico mezzo sfatto che al telefono dice "Pronto, mamma..." e non pensavi nemmeno a quella parola in bocca sua, ha un sapore strano. Un bambino dai tratti peruviani, o colombiani, che ti suggerisce panorami da foresta amazzonica, o vedute andine, vestito all'ultima moda, con i jeans e la crestina ingelatinata.
Persone di mondi diversi che transitano qui, solcano i crocevia immaginari del caotico occidente, trasformano le metropoli in agglomerati senza volto dove le diversità si mescolano e dove tutto allo stesso tempo, esiste. Lasciando in bocca il sapore di niente.
La metropoli ha il potere di annullare le distanze, di negare le separazioni ma anche di dirottare a precipizio verso istanti di solitudine immensa, mescola mentre divide, fa coesistere mentre annulla. La metropoli è un paradosso vivo, che respira. Milano è una metropoli che dilaga e si espande senza forma. Dove tutto è così vicino da potersi toccare e poi dentro si allontana fino a non vedersi più.

Friday, October 27, 2006

Sogno di oggi

Ho deciso: il tema del mio blog saranno I SOGNI E LE CITTA'. Due miei interessi specifici, due passioni, due ossessioni che spesso si incontrano e si compenetrano dentro di me come corpi di amanti. Che parlano di me attraverso il loro amplesso e mi fanno vivere altre vite.

La peculiarità del sogno di stanotte è la bolgia. Mi trovavo in mezzo a tanta gente, sulla spiaggia. Una spiaggia affollatissima, di quelle stile Versilia, con gli ombrelloni vicini, che quasi si toccano e coprono il cielo. Addirittura mio fratello e i suoi amici avevano apparecchiato un lungo tavolo, con un baldacchino di teli che lo copriva, e bivaccavano. Non era una spiaggia estiva, come sempre il mare dei miei sogni è scuro e invernale, con il cielo coperto di nuvole grigie ben tornite e la sabbia umida. Era anche mosso, solcato da gonfi cavalloni tra i quali galleggiavano tranquilli bagnanti. Faticosamente superavo la cortina di gente che affollava il bagnasciuga e mi trovavo sulla riva, con i piedi nell'acqua. Volevo fare un bagno ma la decisione era difficile perchè il mare non invitava: oltre alle onde, l'acqua era fredda e scura. Il mio corpo reagiva con difficoltà a questa situazione climatica ma anche affettiva, però faticosamente raccoglievo le forze per tuffarmi.
Ma improvvisamente la folla si raccoglieva e si spostava verso qualcosa, come guidata da una forza attrattiva.
Anche io mi incamminavo con gli altri, schiacciata in mezzo alla folla, perdendo di vista visi conosciuti. Con un'improbabile quanto repentino passaggio ci trovavamo nella mia scuola materna. Era molto più grande della realtà e disposta in maniera differente. Grandi stanze antiche, con poco mobilio. Comparivano anche le suore, compresa la mia maestra. Non c'erano bambini ma la loro presenza si percepiva, anche se l'ambiente aveva più l'aspetto di un orfanotrofio vuoto piuttosto che di un asilo. Le stanze si riempivano ad ondate, la gente si stipava alla ricerca di qualcosa, o in attesa di un ordine superiore. Il flusso ricominciava e venivamo spinti attraverso l'edificio, percorrendo corridoi bui e stanze che sfociavano in altre stanze, in una specie di ascesa faticosa. Le scale si trasformavano da larghi scaloni ottocenteschi in piccole e instabili scale a pioli di legno scuro, da soffitta: e il senso dell'ascesa aumentava, mentre le suore rimanevano ai piani bassi ed io cercavo la mia maestra, persa tra la folla a preparare lettini per bambini piccoli. Volevo raggiungerla ma l'incedere della folla in cui ero inserita non me lo permetteva. E poi avevo paura che non mi avrebbe riconosciuta. Ci ritrovavamo sul crinale di un monte, a precipizio sul mare. L'ultima faticosa salita era la scalata di una parete di roccia che finiva con una punta aguzza e scivolosa. Eravamo in tanti, io ed altri visi noti, persone della mia infanzia. Si vedeva il mare a perdita d'occhio, un mare dal sapore mediterraneo, non so dire in che ora della giornata.
La sensazione più pervasiva era quella di non poter visitare con calma e sufficiente spazio vitale il mio asilo. Assalita dalla voglia di rivederlo e ripercorrerlo stanza dopo stanza, anche negli aspetti sconosciuti, ne ero impedita dall'ingombro umano che lo presidiava. Scoprivo un corridoio di buio polveroso con le camere delle suore. Mentre gli altri avevano realizzato lo scopo della misteriosa visita io mi sentivo profondamente insoddisfatta e disorientata.
Non avevo trovato ciò che, del mio passato, ero venuta a cercare.

Thursday, October 26, 2006

Ombre dietro la schiena

A volte quando vai incontro ad eventi del futuro senti dietro le spalle l'incombere di segnali provenienti dal passato. Vorrei non dovermi confrontare con questo accadimento doloroso. La paura di essere invisibile e dimenticata. La paura di non esistere, o di essere confusa in mezzo ad una bolgia di altri esseri umani che premono per la sopravvivenza. Il bisogno di emergere quasi per una questione vitale, come respirare...la prima delle funzioni che il corpo umano deve acquisire per garantirsi la sopravvivenza. Perchè ho bisogno di tutto questo?
Di riviverlo ancora e ancora fino all'estremo, fino alla ripetizione infinita che non lascia più nulla se non un solco profondo e senza significato.
La cosa che meno riesco a tollerare è il gruppo. Io nel gruppo non riesco a funzionare, divento un arto scollegato che va per conto suo, dove confluiscono le correnti più primitive e meno elaborate di tutti gli altri. Nel gruppo ho paura di non avere aria da respirare e di soccombere.
Lo so, è un discorso poco comprensibile: lo è anche dentro di me, anche se ci sono i collegamenti oggettivi che servono per contestualizzare e capire di cosa sto parlando. Ma qui non posso inserirli. Qui sarò solo una traccia telematica, non trapelerà nulla della me vera, se non qualcosa dell'interno, riversato su queste pagine vuote e ricomposto il meglio possibile. Non sono qui per farmi conoscere, per aprirmi. Piuttosto sono qui per chiudermi, per avere un contenitore protetto in cui provare dei movimenti senza farmi del male. Sono qui per lasciare una traccia mia che non mi faccia sentire autentica ma semplicemente mi consenta di lasciare qua e là cose che non posso far vedere al mondo, come semi gettati tra le zolle di terra smossa. La mia speranza è che in qualche modo possano germinare facendo nascere una pianta nuova.
In sostanza scordatevi di capire: potete prendere i pezzi e tentare di collegarli, pensando che quest'esperienza mi fa sentire libera e protetta nelle mie debolezze, nel mio dark side tanto quanto urlare ferocemente al buio in una stanza vuota. E potete comunque avere una forma di me fatta da voi e quindi creare una me nuova attraverso di voi, ogni volta che leggete. E' per questo che ho fatto un blog e sto cercando giorno dopo giorno di creare una mia filosofia del blog attraverso la vita che ci vivo dentro, l'uso che ne faccio. Non è originale, non tanto quanto altri blog che ho visto in giro e che sono veramente dei colpi di genio, ma è mio, è la mia piccola stanza virtuale dove ho voglia di esistere. E' tutto ciò che so fare.

Wednesday, October 25, 2006

Ode alla metropoli di cristallo: NY


Vorrei scrivere su New York da qui.
Ma non riesco. Certe cose le ho provate solo là, anche semplicemente chiudendo gli occhi e respirando, incamerando aria, rumori e suoni. Anche l'aria di NY è particolare e se respiri a occhi chiusi sai esattamente dove sei. Sei a NY.

2/1/2005
Sono a NY da poche ore. Ho fatto una doccia, una camomilla, e ora scrivo dal mio enorme letto ad una piazza e mezzo dell'hotel di Manhattan dove siamo alloggiati. La prima impressione è stata brusca: caotica, sporca, piena di quell'accozzaglia di cose che balzano all'occhio marginalmente nei film americani. Case di legno, 1000 luci, sacchi dell'immondizia per le strade buie di Queens, odori forti, miliardi di scritte pubblicitarie, luci ad alveare nei grattacieli...

Anche ora la sento che si muove dietro i vetri e che non si fermerà mai, fino a nuovo giorno. Succede di tutto là fuori questa notte

La metropoli di cristallo è come un respiro pesante in cui confluiscono tutti i rumori d'America. E' un vicolo malfamato con i fumi del riscaldamento che escono dal marciapiede. E' una finestra con i vetri piombati a precipizio su una coperta di tetti da attraversare. E' il Central Park dove incontro un inviato di Rai 3 che passeggia e vedo un'enorme lago su cui uccelli marini hanno formato una striscia con i loro corpi. E'il palazzo dei Gosthbusters. E' una città portuale. E' Brooklyn e tanti visi di contadini del sud che hanno iniziato a vivere qui un secolo fa. E' la città di Oriana Fallaci anche se non ho trovato la sua casa, ma sapevo che c'era. E'l'abisso di Ground Zero visto di notte in cui si rifrangono cristalli di luce e affondano nomi di eroi sconosciuti. E' un flauto che intona God Bless America all'angolo di una strada. E' Little Italy triste scenografia vuota di un film primi novecento. E' assenza di homeless e chiedersi dove sono andati a finire.

E' alzare gli occhi e metterci un po' prima di trovare il cielo.






Wednesday, October 18, 2006

Buco d'acqua e...figliol prodigo



Metti tutti questi sogni strani che ho fatto, e la visione di un film surreale e inquietante, "Profumo", al cinema con una mia amica e poi la sosta al messicano, a mangiare cibo finto e piccante. Poi la storia di un amico (ma era un amico??) diciamo conoscente, che ha deciso di andarsene improvvisamente e non si capisce come gli altri la pensino veramente (la parabola del figliol prodigo...). E i sogni che continuano, e sono sempre più nitidi, immagini e situazioni che mi sento di aver vissuto davvero e la mattina, quando mi sveglio ed entro nella vita reale, mi lasciano la testa confusa e mi sento stordita, come se improvvisamente mi trovassi in un'altra città, in un'altro mondo, al tempo di un battito di ciglia...chi sono veramente?A volte è così difficile separare la realtà, dalla fantasia, dall'allucinazione, è più comodo farsi trasportare nel caleidoscopio di immagini della psiche che sono come tanti spezzoni di film cuciti assieme. Solo ieri immersa in una marea di ballerine pre e tardo adolescenti, con la pelle lucida, i capelli volminosi e gli occhi brillanti. Corpi acerbi e bellissimi, dalla morbidezza scultorea, dalle linee allungate e snelle. Desiderio di perdersi anche in quel mondo, che svanisce quando si chiude il sipario e svanisce ancora, come un sogno alle prime luci dell'alba.
Un sogno da rincorrere finchè resta fiato in gola. Abiti indossati con noncuranza, gioco di stili condotto con la leggerezza dell'adolescenza, dove tutto vale nel momento in cui esiste e poi scompare. Adolescente per sempre, contro il tramonto, contro il freddo della notte, adolescente nella trasformazione perenne che non porta da nessuna parte. Un orecchino strano e capelli fermati con le mollette e calzini di lana e un maglione largo e una scia di lucidalabbra che risplende nel buio.

Tuesday, October 10, 2006

Open water 2


Quando ero piccola trascorrevo un mese di vacanza al mare in Toscana. L'ultimo giorno, prima di tornare a casa, mi immergevo per l'ultima volta. Guardavo il blu profondo dell'acqua con gli occhi nella maschera e pensavo Ciao mare... Mi dispiaceva lasciarlo. Era il saluto di una bambina a qualcosa che sentiva vivo e parte di sè. Pensavo semplicemente questo, ciao mare...e sapevo che lui mi stava ascoltando. Silenzioso, in attesa di un inverno di solitudine. Poi mi allontanavo, avvolta nell'asciugamano, e mi voltavo un'ultima volta, per catturarlo nello sguardo.
Ciao mare, ci vediamo l'anno prossimo...
Ciao mare, ci vediamo l'anno prossimo... (cosa farai qui solo per tutto l'inverno?)

Già allora volevo vivere dentro al mare

OPEN WATER. Riflessioni sottomarine


Non ho mai visto questo film. Ho visto il trailer, ne ho sentito parlare ma non l'ho mai visto. Stanotte però ho fatto un sogno che lo riproduceva esattamente. Ero sola, in mezzo ad un mare come questo, una distesa d'acqua a perdita d'occhio in cui si specchiava un cielo scuro.
Io amo nuotare, specialmente al largo. Anche se ti dà quella sensazione di vulnerabilità, di essere solo al cospetto della potenza della natura. Ma nel sogno ero ancora più sola perchè non c'erano altre persone, non c'era terra, non c'era nulla. Solo due squali, la cui pinna emergeva dall'acqua, che si avvicinavano lentamente a me, innocui come delfini. Ma sapevo che sarebbe durata poco. Mi avrebbero mangiata viva. Nessuno mi avrebbe potuto salvare. Ero sola di fronte alla mia morte, una morte atroce, che mi avrebbe fatto soffrire tantissimo. Non ho mai visto la fine di quell'incubo. Era un'idea così insopportabile che mi sono svegliata prima. So che vorrei morire in mare. Così come sono nata nell'acqua così vorrei morirci. Tutte le volte che lo vedo, immenso e immobile, un silenzio primitivo e assoluto, penso a come sarebbe sparirci dentro, per sempre. A come sarebbe trapassare da lì, da quella quarta dimensione che è l'acqua. L'acqua è come un'interfaccia tra due mondi. Ecco perchè adoro nuotare. Avete mai sperimentato il suono che si propaga sott'acqua? E' la voce del mare, la voce dell'abisso.
Quando sono sotto penso che vorrei essere un pesce, per viverci. Mi immergo, e prima di riemergere provo un leggero dolore, un'intima sofferenza nel lasciare quello. Il riemergere, il filo dell'acqua, è il passaggio tra le due dimensioni. Sono sopra, inizio a respirare con i miei polmoni, vedo il cielo, il sole che mi scalda. Eppure soffro, perchè mi sono separata...

Ho visitato blogs bellissimi, vere opere d'arte. Mi sono chiesta come mai sentissi l'esigenza di creare un blog ma ancora non ho saputo rispondere. Da una parte pare un'esigenza estetica connessa all'impulso di creare che in questo periodo sta occupando la mia mente a tempo pieno. Dall'altra c'è questo fatto delle cose molto personali che normalmente si bloggano, e che anche se non lo sono apparentemente, in realtà parlano di te più di quanto te ne possa rendere conto. Non saprei dire quanto un blog lo faccia chi guarda o chi scrive. A volte mi sembra che sia l'osservatore, il navigatore casuale che si imbatte in quella pagina, proprio quella in mezzo a milioni di altre, che dia un valore a quel blog più di quanto possa averne in sè stesso. Se non ci fosse l'occhio anonimo del visitatore, del lettore, il blog esisterebbe? I libri esisterebbero senza lettore? E' la stessa cosa di quando ci chiediamo se l'albero che cade nella foresta senza nessuno che lo sente faccia rumore...
Non so se l'idea del mio blog avrebbe preso corpo senza i mille occhi che scrutano dal buio del mondo virtuale. Del resto vorrei svilupparlo, abbellirlo giorno dopo giorno come si fa quando si compra una casa nuova. La prima volta che ci vai dentro e la senti tua e inizi a pensare a cosa metterci, partendo dalle cose essenziali per arrivare alle decorazioni, alle supellettili, ai quadri, a tutto quello che te la fa sentire veramente tua. E io che una casa mia non ce l'ho, e chissà per quanto tempo non l'avrò, ho deciso di prendermi questo spazio di nulla, questo appartamento virtuale tutto mio, che posso costruiredipingerearredaredistruggere come piace a me. Dove ci sono solo io che apro la porta e faccio entrare gli ospiti. Dove posso urlare se mi va e fracassare tutto. Dove posso riposare e richiudermi su me stessa nel mio mondo, e giocare con le parole, le lettere e i suoni. Dove posso muovermisaltareurlare. Ce l'ho fatta. L'ho inaugurato, l'ho battezzato...
Welcome blog in your virtual world

Monday, October 09, 2006

HOMESWEETHOME

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Non basterà un'ora. Me la farò bastare ma non basterà, per dirti tutto quello che devo. Ho scoperto un mondo mentre viaggiavo su un treno vecchio verso la stazione di Milano in una mattina grigia.